Intervista a DRAMANDUHR


Dramanduhr fa capo al musicista e polistrumentista Stefano Eliamo. Lui ha ideato questa singolare creatura, che andremo a scoprire attraverso le sue parole, dato che si è dimostrato generoso nel rispondere alle nostre domande. A voi e buona lettura!

01. Ciao, per noi è un piacere ospitarti. Iniziamo facendo un bilancio della tua carriera… Insomma, come valuti il percorso fatto da Dramanduhr finora, sia artisticamente che come pareri del pubblico.
Il piacere è mio, grazie dell’invito. Il percorso di Dramanduhr, nato nel 2020, è stato sin dall’inizio molto personale, intimo e radicale. Non è mai stato pensato per piacere a tutti, ma per portare alla luce un linguaggio interiore che non riuscivo a esprimere con la mia musica precedente. Nonostante questo, ho ricevuto riscontri sinceri e appassionati: chi ha davvero ascoltato ha colto la profondità e l’unicità del progetto. Dramanduhr è entrato nel mondo del collezionismo per molti appassionati e già il solo sapere che un mio album si trovi conservato ed esposto in qualche libreria nel mondo basta per rendermi felice. Non cerco numeri, cerco anime affini. E nel mio piccolo, mi accorgo che Dramanduhr sta lasciando un segno.

02. Descrivi con tue parole il nuovo “Vertuhn”.
Vertuhn è una discesa, un viaggio nel blu notte dell’anima, dove le forme si fanno più oscure, i suoni più stratificati, e il caos diventa parte del rito. Se Tramohr era la soglia del vulcano, il fuoco, il rosso della lava, Vertuhn è l’inverno interiore, il momento della trasformazione attraverso il buio. È un album che intreccia metal, folk mediterraneo ed elettronica rituale, cantato in una lingua inventata — il Dahrmonium — nata da stati di trance e glossolalia. Un disco che non spiega, ma invoca. Non ti guida, ma ti sfida a entrare. Le dieci tracce che lo compongono sono state scritte poco dopo il primo album, ma ho deciso di aspettare il momento giusto, un vero allineamento con l’Universo, prima di pubblicarle. In quel periodo non sapevo nemmeno se volessi tornare davvero a far parlare di me. A volte provo disgusto per il bisogno narcisistico che abbiamo noi artisti di essere ascoltati, riconosciuti, glorificati. È una dinamica che può diventare tossica, e in certi momenti ho desiderato uscirne del tutto. Stavo attraversando una profonda crisi depressiva, una condizione che purtroppo mi accompagna da sempre, e che riemerge ciclicamente. Poi, una notte, sobbalzai dal letto e cominciai a camminare in tondo nella stanza. Decisi di mettermi le cuffie e riascoltare il secondo album di Dramanduhr, che giaceva ancora inedito. Fu lì che qualcosa accadde: le canzoni suonarono diverse, vive, come se mi stessero parlando. Come se mi dicessero: siamo pronte. Una voce interiore mi spinse ad alzarmi, sedermi al computer e iniziare a progettare un concept visivo. Lo feci con fatica, trascinandomi. Ma quella notte individuai il colore dell’album: il blu notte. E fu allora che affiorò nella mente il titolo: Vertuhn — che in realtà era già il nome di una traccia della tracklist. Ma in quel momento divenne il nome di tutto il progetto. Suonava come autunno, inverno, ritiro, mistero. Era perfetto. Vertuhn era il nome giusto per tornare. Per rinascere come Dramanduhr. Quanto ai brani, credo rappresentino una notevole evoluzione rispetto a Tramohr. Sono più oscuri, più complessi, più stratificati. Aggiungono profondità e visione al percorso iniziato con il primo album, e lo spingono verso un territorio ancora più simbolico, rituale e viscerale. 

03. Hai dichiarato altrove che il metal non è essenziale nel tuo bagaglio musicale. Vogliamo spiegare questo aspetto?
Assolutamente. Vengo da un background rock-pop e cantautorale, e ho incontrato il metal tardi, quasi per necessità emotiva, non per formazione. Quando ho iniziato a comporre i primi brani di Dramanduhr, avevo in mente i Rammstein come unica possibile ispirazione, ma mi è stato fatto notare fin da subito che ciò che stavo creando non somigliava affatto a loro. Spesso vengo accostato a band metal che non conoscevo nemmeno, perché non sono cresciuto ascoltando metal, né ho mai fatto parte di quella scena in senso stretto. Il mio approccio è stato istintivo, viscerale, come un’esplosione. Il metal è stato un mezzo, non un fine: mi ha offerto densità, tensione e potenza simbolica, ma il cuore di Dramanduhr è più vicino a un rito che a un genere. Credo che un vero musicista metal sia qualcuno che sin da giovane si è immerso in quella cultura, nella ricerca della tecnica, del virtuosismo, della velocità, o anche nell’espressione vocale estrema, come il growl. Io invece prediligo la voce pulita, melodica, una linea vocale che può anche essere fischiettata mentre guidi o sei assorto nei pensieri. Allo stesso modo, preferisco riff ritmici agli assoli tecnici, e uso la doppia cassa solo se è davvero necessaria al brano, mai come automatismo. Per questo non mi definisco un musicista metal in senso puro. Sono un cantautore che ha preso in prestito alcuni elementi del metal per veicolare concetti più profondi, per dare corpo e ombra a un linguaggio interiore che aveva bisogno di forza, ma anche di evocazione.

04. Parliamo dell’Italia metal. Stiamo riuscendo ad uscire completamente dall’underground secondo te?
Credo che l’Italia abbia una scena ricchissima e coraggiosa, ma spesso ignorata o sottovalutata nel proprio stesso territorio. Siamo molto forti quando non imitiamo, quando attingiamo alle nostre radici – e penso che qui ci sia una chiave per uscire davvero dall’underground: non uniformarsi, ma riscoprire la nostra identità profonda, sia sonora che culturale. L’underground non è un limite, se lo si vive come un territorio libero e fertile. Ma per fare il salto serve anche una rete culturale e mediatica più solida.


05. Quali sono le band che più ti hanno influenzato e ancora lo fanno?
Più che band specifiche, mi influenzano i mondi. Certo, apprezzo i Rammstein per la forza visiva e performativa, o i Dead Can Dance per l’aspetto rituale. Ma non posso dire di essere stato davvero formato da loro. La musica che ho sempre ascoltato proviene da tutt’altro orizzonte: U2, Oasis, R.E.M., Cranberries, e soprattutto i Beatles, che considero la band più geniale di sempre. Eppure, Dramanduhr non nasce nemmeno da quelle influenze. Mi sono accorto, strada facendo, che nella composizione dei brani emergevano aspetti unici, profondi, intimi, non legati ai miei ascolti da ragazzo, ma piuttosto alle mie radici mediterranee. Mio nonno paterno era di Rodi, e lo stesso mio cognome, Eliamo, viene da lì. Credo che Dramanduhr abbia aperto un portale proprio verso quella parte di me rimasta silenziosa per anni: la parte che viene dal sud, dal mito, dalla terra, dal fuoco. Per anni avevo rivolto lo sguardo al suono nord europeo o statunitense, ma Dramanduhr non abita quei luoghi. Dramanduhr si localizza nel sud, sulle coste del Mediterraneo, tra la Sicilia, il flamenco, i riti antichi, i racconti omerici, le voci popolari. Cerco evocazione, non imitazione. Cerco un suono che somigli a una fessura tra i mondi, un linguaggio perduto che risuona solo quando smetti di cercare riferimenti e lasci parlare le tue origini.

06. Quali sono state le più grandi gioie per te in ambito artistico e quali i momenti più negativi?
Premettendo che il genere musicale che mi sono ritrovato a scrivere appartiene a una nicchia molto ristretta, le gioie più grandi arrivano quando qualcuno — anche solo una persona — capisce davvero cosa sto cercando di dire, o meglio, di evocare. Quando ricevo messaggi in cui mi si dice che la mia musica ha trasportato altrove, allora capisco che ne è valsa la pena, che quel linguaggio ha trovato una risonanza. I momenti più belli, per me, sono la fase della composizione, quando sento che sta nascendo un nuovo brano, e poi quando leggo le parole di professionisti del settore, come voi, che riescono a cogliere in profondità ciò che Dramanduhr sta tentando di comunicare. I momenti più difficili, invece, arrivano subito dopo la pubblicazione di un progetto, quando tutto si svuota. Resto con un senso di morte creativa, come se non avessi più nulla da dire. Ho sofferto — e continuo a soffrire — di periodi depressivi profondi, in cui mi sento esaurito, svuotato, come se tutto fosse già stato detto e scritto. Perché dentro di me si riaccenda una fiamma, devono verificarsi condizioni emotive molto precise, e questo non accade ogni giorno, anzi, accade di rado. Ci sono lunghissimi periodi in cui non tocco uno strumento, addirittura, quasi li evito. In quei momenti, mi sento davvero come morto. Ma poi, a volte all’improvviso, qualcosa ritorna. Una voce, un’immagine, un segno. E magari, si ricomincia.

07. Hai già fatto o farai dei concerti nell’immediato per supportare “Vertuhn”?
No, al momento Dramanduhr è un progetto da studio. È una one man band e vive di isolamento creativo. Non ho mai pensato a un live nel senso tradizionale del termine. Tuttavia, in futuro mi piacerebbe concepire un’esperienza performativa rituale, magari in spazi sacri o naturali, qualcosa che sia più vicino a una cerimonia che a un concerto. Ma deve arrivare il momento giusto, e il luogo giusto.

08. Cosa prevedi per Dramanduhr per il 2025 o il 2026?
Sto già lavorando a quello che potrebbe essere il terzo e ultimo capitolo di quella che chiamo la Trilogia del Vulcano. Non ho ancora un titolo definitivo, ma i primi brani stanno nascendo. Il suono si sta espandendo, sto provando a introdurre nuove timbriche, voci femminili, strumenti acustici e ambientazioni ancora più evocative. L’idea è quella di chiudere un ciclo, con un album che sia catarsi, trasformazione e conclusione. E poi, forse, un nuovo inizio.

09. Abbiamo finito, i saluti finali a te!
Vi ringrazio sinceramente per lo spazio e l’ascolto. Dramanduhr non è solo musica, ma una visione, un cammino. Cerco di onorarlo con autenticità e dedizione. Ringrazio ogni singolo lettore che è arrivato a leggere fin qui e ogni singolo ascoltatore che ha trovato il tempo per apprezzare la mia arte. Detto questo, Vertuhn è disponibile su tutti i digital stores, ma anche in versione CD e digitale su Bandcamp. Un abbraccio a tutti i lettori, e a chi è in ascolto.


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